Press Eloisa Manera Ensemble – Invisible Cities

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Review by Antonio di Vita for Jazz It

Le città invisibili, il romanzo di Italo Calvino, è al centro del secondo album da leader di Eloisa Manera. La violinista ne fa una trasposizione musicale che, mantenendo fede alla struttura del libro (dove ogni capitolo è aperto e chiuso da un dialogo fra il Gran Kahn e Marco Polo), alterna duetti improvvisati a brani in sestetto. Ne nasce un caleidoscopio sonoro affascinante e immaginifico, speziato sotto il profilo linguistico, a cui giova la scelta di affidarsi ad artisti estroversi come Piero Bittolo Bon, Pasquale Mirra, Danilo Gallo e Ferdinando Faraò.

Review by John Book for This is Book’s Music– December 2016

For some odd reason, parts of hearing Invisible Cities (Aut) reminds me of parts of the 1970’s film Midnight Express where some elements sound foreign yet very close by. Some of it sounds very classical and jazzy, then it gets locked into a nice funk that forces me to go “well damn, I want to stay in this place” before it drifts off into a place I’ve never been to before. If I am to judge the music based on the credits alone, it does go everywhere: double bass, electric bass, cumbus bouzuki, recorders, ewi: one is still unsure of where the music goes but you want to stay in and see where it takes you. It has that incidental feel where it is just music with the right visuals missing or perhaps this is what it is meant to be, a soundtrack to a mental eyeful.

Even after reading the liner notes which explain the theme of the songs (i.e. a series of cities, each with female names), you’ll want to hear it once more and see if you can sense what Manera tried to do with this concept, or simply listen to it based on the song titles alone. Either way, Invisible Cities is a journey to places that you’d like to see but can only imagine if you wish to do so.

Review by Marco Carcasi for Kathodik– April 2017

Opera saettante quella della violinista/improvvisatrice/compositrice italospagnola Eloisa Manera.
Che sfoggia un fresco tiro spiazzante e sbarazzino, a botte di funk ossuto, insiemi astrali in tiro Arkestra (Cities e Exchanges), polveri e serci di tradizione popolare (remiscelata in strobo spesso cubista), inneschi lunari, ciondolamenti post RIO manco fossero dei Remote Viewers (Cities e The Dead), una nervosa propensione soundtrack (Cities e The Dead).
Qualche grammo di consuetudine jazz-rock da segar negli angoli ma ci siamo.
In splendida compagnia oltre l’autrice di: Gianluca Barbaro, Piero Bittolo Bon, Andrea Baronchelli, Pasquale Mirra, Danilo Gallo, Ferdinando Faraò, Roberto Zanisi, Walter “Bonnot” Buonanno.
Un’alternanza ben congegnata di duetti impro e settetti con “Le Città Invisibili” di Calvino ad ispirar le braci nel coppino.
Visione plausibile e contemporanea di epidermica satisfaction.

Review by Jesus Gonzalo on Noiself

El sello AUT records está afincado en Berlín con un pie en el norte de Italia. Justo de allí procede esta violinista de madre española y un conjunto que podría ser parte de la plantilla fundacional del sello El Gallo Rojo.

Eloisa Manera entrega un jazz de cámara novedoso donde late un corazón melódico clásico y un concepto renovado de composición orquestal donde hay incrustaciones electrónicas. La perfecta combinación de un formato instrumental con semejante potencial y atractivo expresivo (del virtuoso vibráfono de Mirra al eje proteico de Gallo, del violín al tratamiento electrónico) hacen posible un discurso en el que un grupo de medio tamaño pueda sonar a pequeña orquesta de jazz o a ensemble mixto de cámara, incluso a todo y a nada.

Melodías y groove, espacios abiertos con otros perfectamente fijados, perfilan un trabajo inspirado en el libro de Italo Calvino Las Ciudades Invisibles un viaje, pese a lo poco original de la comparación, por diferentes territorios acaso imaginados. Todos ellos componen un fresco sonoro apetecible, sutil y vigoroso. Bienvenida Eloisa, su violín y sus paisajes.

Review by Ernesto Scurati on Tracce di Jazz– November 2016

Nato dall’idea di un progetto multidisciplinare di Eloisa Manera, “Invisible cities” è un lavoro ispirato a “Le città invisibili” di Italo Calvino. Il romanzo viene ripercorso musicalmente attraverso le 11 categorie che catalogano il brulicare caleidoscopico delle 55 città che, con nome di donna, compaiono in modo combinatorio nel libro. Il viaggio attraversa le città dei morti, della memoria, del desiderio.

Nato dall’idea di un progetto multidisciplinare di Eloisa Manera, “Invisible cities” è un lavoro ispirato a “Le città invisibili” di Italo Calvino. Il romanzo viene ripercorso musicalmente attraverso le 11 categorie che catalogano il brulicare caleidoscopico delle 55 città che, con nome di donna, compaiono in modo combinatorio nel libro.
Il viaggio attraversa le città dei morti, della memoria, del desiderio come nel mandala magico delle città continue, che non si sa dove inizino né dove finiscano, aspirando ad una fluida infinità.
I brani in settetto scritti e arrangiati, si alternano a dei duetti di libera improvvisazione fra violino e un set di strumenti dell’area dell’est Europa, che ci proiettano nella direzione di quelle sonorità che fanno parte delle terre del Milione, cioè di quella Mappa geografica a cui si rifà Calvino.
L’idea dei duetti formalmente vuole ricalcare l’idea del romanzo per cui ogni capitolo è aperto e chiuso da un duetto dialogico fra i due protagonisti: Marco Polo e il Gran Khan. L’album è pubblicato dalla Aut Records.

I duetti:
Il dialogo è lasciato appositamente alla spontaneità dei musicisti che cercano di non simulare nessun tipo di genere precostituito, svincolandosi dalle regole formali e da tutto ciò che potremmo aspettarci. Si vuole far assaporare un certo gusto di sonorità “esotica”, ma si rifugge da ogni categoria cercando di rimanere fedeli ad un dialogo emotivo e materico.
C’è una questione linguistica legata a questa scelta. All’inizio del libro Marco Polo non conosce la lingua e il modo di comunicare col Gran Khan si basa principalmente su dei gesti, con un fare piuttosto grossolano.
Col passare del tempo Marco Polo incrementa la conoscenza della sua grammatica e affina la padronanza della lingua, ma i due si rendono conto che questa raffinatezza tecnica, non rende affatto migliore la qualità della comunicazione.
La ricerca è quella di sfuggire ai codici, ai linguaggi, ai virtuosismi per andare al centro di una libera apertura dialogica che vada al concreto della realtà del presente e dell’essere musicalmente in due, nudi, imperfetti, istintivi ed evocativi.

I brani in settetto:
I riferimenti stilistici della scrittura sono da ricondursi genericamente alla tradizione occidentale. Mentre i duetti strizzano l’occhio all’Oriente, i brani in settimino hanno lo sguardo sonoro rivolto sia alla tradizione classica centroeuropea, che al di là dell’Oceano agli Stati Uniti in direzione di NY e Chicago.
Le città descritte da Calvino sono immaginifiche, filosofiche, concrete quanto basta per poter dare spunti di riflessione sull’esistenza.
La silenziosa potenza del femminile che cerca di essere contenuta dal maschile, l’irrazionale che sfugge ad ogni catalogazione eppure in modo scientifico cerca di essere definito, arginato.
L’ideale e il concreto, l’alto e il basso, il cielo e il sotterraneo, il celeste e il terreno, i morti e i vivi, il finito e l’infinito: tutti i questi doppi e molti altri si rifrangono in un gioco di specchi che, tramite finestre dalle quali ammirare le città immaginarie, ci porta a riflettere sull’esistenza, sulla natura umana, prima ancora che sull’urbanistica contemporanea.
I brani hanno una scrittura corale e contrappunistica, pur rifacendosi ad un uno spirito jazzistico che include un forte senso del groove e dell’improvvisazione su sequenze di accordi più o meno articolati.

Interview by Enrico Bettinello for Il Giornale della Musica

LE CITTÀ SONORE DI ELOISA MANERA
La violinista racconta il suo progetto dedicato a Italo Calvino
È una musica avventurosa e ricca di profumi quella immaginata e realizzata dalla violinista Eloisa Manera, musicista che da qualche tempo si sta segnalando per una felicemente inquieta versatilità, che l’ha portata recentemente alla pubblicazione di un disco originale e affascinante come Invisible Cities (Aut Records), ispirato all’omonimo libro di Italo Calvino.

Nel disco, che coinvolge alcuni dei più significativi jazzisti creativi di casa nostra, si attraversano infatti atmosfere e momenti molto diversi, ma accomunati da una tensione espressiva davvero intensa.

Per conoscere meglio il lavoro di Eloisa Manera, l’abbiamo intervistata.

Partiamo da Invisible Cities: come mai l’idea di ispirarsi al libro di Calvino?

«L’idea iniziale era quella di creare un progetto che potesse assomigliarmi, all’interno del quale poter trovare una corrispondenza artistica che andasse oltre l’organizzazione di un insieme di suoni, ma che potesse diventare un’architettura musicale accompagnata da immagini video e danza, prendendo l’avvio da uno spunto letterario: una sorta di reinterpretazione di un libro tramite la traslazione delle parole in suoni, immagini, movimento… mettendo al centro di tutto la musica. Parlerei poi di istinto naturale, vicinanza immediata, “risonanza per simpatia” intellettuale. Calvino è uno di quegli autori che mi rendono fiera di essere italiana, un patrimonio dell’umanità che mi è venuto naturale omaggiare con la rilettura musicale di uno dei suoi libri più belli e attuali. Le città invisibili sono ancora oggi capaci di parlare all’uomo dei suoi paesaggi interiori ed esteriori, attraverso un gioco di specchi che riflette il contemporaneo e fa riflettere».

Sono d’accordo con te. Quali riflessioni ti ha suggerito?

«È un libro che porge domande, più che dare delle risposte e per questo mi da ha sempre molto affascinato. Dal punto di vista musicale è stato uno stimolo grandissimo, poiché avevo la possibilità di aprire finestre su paesaggi ad ampio spettro. La mia è una rilettura attraverso le 11 categorie, che danno i titoli ai brani (Le Città e i morti, e il desiderio, continue, sottili, eccetera) e non attraverso le 55 singole città, che hanno tutte affascinanti nomi di donna. È un libro talmente denso e caleidoscopico che un artista potrebbe lavorarci sopra una vita intera senza esaurire mai del tutto gli spunti che offre». Questo lavoro è stato fra l’altro anche l’oggetto della tesi finale del mio secondo biennio in Conservatorio».

Nel disco sono alternati dei duetti improvvisati a altre composizioni per settetto. Come hai costruito questi pezzi e che spunti hai fornito per le improvvisazioni?

«Mi piaceva ricalcare un aspetto della struttura del libro, ovvero il fatto che ogni capitolo sia aperto e chiuso da dei “duetti” onirico-filosofici fra il Gran Kahn e Marco Polo. In questi interstizi dialogici emerge rapidamente (precisamente alla fine del primo capitolo) una sorta di riflessione metalinguistica. Calvino descrive così il modo di esprimersi dell’avventuriero veneziano: “Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi”. Più passa il tempo e più il viaggiatore fa proprio il codice linguistico orientale, ma i due si accorgono che la forza espressiva intrinseca negli scambi dei loro primi incontri è irrecuperabile. Le cose raccontate in modo formalmente corretto ora rimandano il Kahn a quegli emblemi che le rappresentavano senza filtri, in modo sia labile che immediato. Ovvero le cose rimandano ai segni che, in forma di gesti improvvisati, volevano essere figure simboliche degli oggetti stessi del racconto. Per questa ragione mi premeva che i duetti fossero delle improvvisazioni libere, senza costruzione razionale previa e che potessero essere i nostri gesti musicali istintivi a guidare il discorso, perseguendo la via dell’assenza di scudi protettivi e di formule linguistiche precostituite. Questo modo di procedere, con un approccio liberamente empirico, ha riguardato l’esecuzione dei duetti, il momento del suonare. Mi interessava che i dialoghi rimanessero fuori da qualsiasi tipo di categoria musicale e che fossero il più possibile “nudi”. A posteriori abbiamo scelto quali frammenti potessero andare bene e successivamente abbiamo inserito i field recordings e i suoni “extra” che si sentono in alcune tracce di questi duetti».

Come hai scelto i musicisti per questo progetto?

«È un onore per me poter avere vicino dei musicisti di tale levatura: sono le persone ideali, capaci di entrare nello spirito di questa musica che sta in bilico fra la scrittura e l’improvvisazione. Non tutti i musicisti sono fatti per suonare tutta la musica e questi sono quelli giusti, poiché ognuno dà un contributo interpretativo fondamentale. Le esperienze dei live fatti finora confermano un’ottima presenza umana, un’attenzione, un ascolto, un peso artistico, un dialogo, una messa a disposizione attiva e propositiva che reputo rari e preziosissimi. Alcuni musicisti li conoscevo già da diversi anni e avevo avuto modo di collaborare con loro in altri progetti. Si tratta di Roberto Zanisi, Gianluca Barbaro, Andrea Baronchelli e Ferdinando Faraò. Ho avuto il piacere di conoscere Walter Bonnot perché sono stata ospite in un suo disco uscito qualche anno fa (Drops) e mi è venuto naturale chiedergli un contributo. Danilo Gallo mi è stato vivamente consigliato da Zach Broch, dopo aver ascoltato il midi-file del primo brano che stavo scrivendo (“Continuous Cities”). Ero a New York quando mi disse che secondo lui Danilo era la persona perfetta per il mio progetto. Pasquale Mirra e Piero Bittolo Bon li conoscevo di fama, li avevo ascoltati dal vivo, li conoscevo artisticamente ma non personalmente. Mi sento fortunatissima che gli ultimi tre musicisti che ho citato abbiano aderito al progetto. Sono felicissima dell’alchimia di questo gruppo nel suo insieme: funziona!».

Nel disco si percepiscono molte suggestioni geografiche e sonore, alcune delle quali legate alla tradizione popolare e all’oriente. Ci racconti qualcosa su questo?

«Mi ricollego a quanto ti raccontavo poco fa. Con queste “addizioni” intendevo stimolare delle suggestioni su dei paesaggi sonori (luoghi sia interni che esterni) e/o oggetti concreti: li percepisco sia come ancoraggi al reale, che come possibili trampolini di tipo semiotico/astratto. Il tipo di strumentazione di Roberto Zanisi legata ai paesi mediorientali e alcuni di questi innesti sonori a cui mi riferivo poco fa cercano di sottolineare l’intersezione e l’incontro del mondo Orientale con quello Occidentale. Ad esempio in “Hidden Cities” sentiamo intercalare il canto di un Muezzin registrato ad Istanbul, con i suoni degli strumenti del duo e suoni non ben identificabili tipo di stoviglie metalliche, quasi a suggerire il retro bottega nascosto di un luogo dove si lavora, ci si affaccenda, ci si muove: un ristorante cinese? una fabbrica in Birmania? Oriente e Occidente si alternano e intrecciano quindi sia all’interno dei duetti stessi (con il dialogo fra lo strumento di origine cremonese e la rosa di strumenti di Zanisi), che nell’alternanza fra i duetti e i brani in sestetto, caratterizzati da una scrittura che si rifà alla tradizione europea e che subisce forti influenze della musica d’oltreoceano. L’Oriente è tirato in causa per rievocare le atmosfere del Milione di Marco Polo, che sono poi le aree geografiche a cui è riferito il libro di Calvino».

Oltre a questo progetto, mi interessa qualche riflessione sul tuo lavoro in solo con l’elettronica. «Il lavoro in solo e quello delle Cities si sono intersecati, poiché mentre stavo cominciando a lavorare alla “musica calviniana” ho conosciuto Gianluca Cangemi di Almendra Music, che mi ha proposto di avventurarmi in quello che poi è diventato Rondine. Le produzioni si sono attraversate al punto tale che tutti i field recordings che stavo raccogliendo per le Cities, sono in realtà finiti nei brani del solo. La gestazione è stata molto libera e anche piuttosto rapida. Non pensavo alla questione della realizzazione live, mentre pochi mesi dopo la registrazione mi sono ritrovata a doverlo presentare all’Auditorium Rai di Palermo e mi sono dovuta attrezzare. Ho messo insieme i consigli di Todd Reynolds sui macchinari e quelli del team di Almendra sulle questioni tecnico-pratiche e sono riuscita a venirne a capo. Attualmente sono in una fase di passaggio, in un ibrido tecnico per così dire».

Spiegami bene questo ibrido… «La questione più delicata del solo è per me il controllo dell’audio, intendo dire soprattutto rispetto alla gestione dei volumi perché ci sono da modulare numerosi strati ed è importante la relazione dinamica fra ogni voce in uscita. Per tenere bene a bada quest’aspetto per ora ho rinunciato a molti effetti timbrici che potevo ottenere passando con una scheda audio nel computer, usando Ableton Live. Ora mi sto piano piano riorganizzando. Sono arrivata a semplificare all’osso per avere spazio a nuove possibili complicazioni, ma sicuramente realizzate con altre modalità tecniche. Di sicuro ho capito che non è buono che il suono del violino passi dal computer o per lo meno io al momento non voglio più gestirlo in questo modo mentre suono… almeno in questa fase è così. Ho bisogno di sperimentare altre soluzioni: chissà mai che non mi debba ricredere, tornare indietro, oppure fondere gli elementi passati con le nuove esperienze».

Collabori o hai collaborato anche con artisti di area pop come Marlene Kuntz, Malika Ayane, La Crus… Cosa chiedono al tuo violino questi artisti?

«Precisione di intonazione, precisione ritmica e pulizia del suono. Con questi artisti parliamo principalmente di collaborazioni di tipo discografico soprattutto in quartetto d’archi o ensemble d’archi, qualche anno fa».

Parliamo di violino. Quali i tuoi riferimenti nella musica afroamericana e improvvisata? Regina Carter o Leroy Jenkins? Ovviamente la domanda, posta così, è giocosa, ma mi interessa una tua rapida riflessione sul ruolo del violino oggi.

«Il tuo riferimento è rivolto al violinismo della tradizione americana, ma non dimentichiamo che anche la Francia ha da dire qualcosa in questo campo. Forse sceglierei una via di mezzo fra i due. Adoro la dimensione poetica di Mark Feldman, che trovo molto ispiratrice, anche se a detta dei violinisti jazz mainstream americani, lui “non è jazz” e viene addirittura collocato all’interno della musica contemporanea. C’è poi una scena di giovani che io reputo straordinari: Zach Broch forse fra tutti è l’esempio più significativo di questa generazione e secondo me anche il migliore perché unisce intelligentemente grande capacità tecnica con profonda conoscenza del linguaggio e freschezza compositiva. Oltreoceano troviamo anche il giovanissimo e imbattibile Billy Contreras (uno Speedy Gonzales/Paganini cresciuto a suon di bluegrass e soli coltraniani) e Christian Howes (che organizza interessanti workshop dedicati agli strumenti ad arco in Ohio). Trovo molto affascinante anche Mat Maneri che ha un suo approccio del tutto personale e fuori dagli schemi, soprattutto per quanto riguarda il suono e l’intonazione. In generale mi affascinano i musicisti che sento che portano avanti una ricerca seppur estrema o di confine all’interno di un linguaggio contemporaneo».

Quali i tuoi prossimi progetti?

«Sto collaborando da diversi mesi con Stefano Greco, in arte DJ Fana. Stiamo lavorando alla pre-produzione di un disco in cui ci siamo spartiti il lavoro a metà: io metto mano ai suoi brani e viceversa. Il tutto è molto stimolante per entrambi visto che abbiamo prospettive e modi di lavorare diversi. Penso sarà un bel lavoro, siamo entrambi molto soddisfatti perché dialoghiamo serenamente e produttivamente. Ho almeno altre tre o quattro idee che mi frullano per la testa: un’altra “ispirazione calviniana” con elettronica e una danzatrice, un nuovo lavoro con il sestetto (sto scrivendo, anche se sono lenta). Nel cassetto ho un trio jazz da diversi anni (chissà se prenderà mai forma…) e in fase del tutto embrionale sta brulicando un duo con Andrea Massaria».

Cosa ascolta Eloisa Manera in queste settimane?

«ABCD di Braxton/Dahlgren; ADE di Roberto Gemo; Vocione di Marta Raviglia e Tony Cattano, il disco Double Cut (qui l’intervista; Arvo Pärt, Complete Works for Violin and Piano & Piano Solo; alcune Sonate per violino e pianoforte e le 5 melodie di Prokofiev; Zach Broch, The Magic Number; il disco di Danilo Gallo Dark Dry Tears; il Miles Davis di Tutu; Gil Evans & Ten; Ambienti di Giovanni Di Giandomenico; Ou di Bob Meanza e Filipe Dias De…».

Il sogno nel cassetto?

«Poter veder realizzato a pieno il progetto originale delle Città e poter continuare a vivere di musica. Sembra una banalità, ma è sempre più difficile e quindi riuscire a continuare su questa strada diventa un’utopia alla quale quotidianamente cerco di dare nutrimento con gesti concreti perché questo cammino possa trovare una collocazione nella realtà della mia vita e della società. Sogno di poter realizzare i miei desideri musicali (che come si è potuto intuire sono diversi) e che il pubblico dell’arte non si estingua del tutto, anzi spero possa crescere».

Interview by Davide Ielmini for Musica

Un violino per le città invisibili
« Invisible Cities » di Eloisa Manera, ispirato all’omonimo romanzo di Italo Calvino, è un disco contemporaneo-classico che oscilla tra jazz e non jazz

Eloisa Manera, fra i migliori talenti che la musica (non solo jazz) abbia prodotto in questi ultimi anni, si esprime in modo indelebile. E con un pensiero globale che dà credito ai suoi studi al conservatorio di Milano, al « Benedetto Marcello» di Venezia (dove si diploma), a Cremona per un biennio classico, in Germania e poi ancora nella città della Scala (suona spesso nell’orchestra dell’Accademia) per un biennio jazz. Trentacinque anni, un violino per amico, come prima passione il klezmer, genere musicale della tradizione degli ebrei ashkenaziti dell’Est Europa. E un disco, « Invisible Cities » prodotto dalla Aut Records e ispirato a Le città invisibili di Italo Calvino, che come un giroscopio stabilizza strane e imprevedibili idee romantico-contemporanee.
Muovendosi tra Occidente e Oriente, totale improvvisazione e notazione penetrabile, tra ritmi di danza e rischio armonico. Insomma, l’apoteosi del Novecento spinta gradevolmente dalle 11 categorie che catalogano le 55 città del volume calviniano.

Perché il violino?
Fin da piccolissima mi ascoltavo i dischi da sola perché mi affascinava quel suono. Poi sono arrivati i concerti in televisione, quelli dal vivo accompagnata dalla famiglia, la trasmissione « Bravo, Bravissimo! ». Vedevo quei bambini e dicevo: « Anch’io voglio suonare così! ».

Prima la classica e poi il jazz?
La classica, e anche per lungo tempo. Con l’Orchestra dell’Accademia ho fatto tantissime produzioni: Il barbiere di Siviglia ce l’ho stampato nella memoria Poi un giorno Herbie Hancock è stato chiamato come solista e ho pensato che un altro giro con l’Accademia dovevo farmelo.

Da Bach a Cage a John Zorn: le tue fonti di ispirazione sono illimitate. Il passato rende attuale la musica di oggi?
Tutto quello che è storico diventa bagaglio per l’invenzione di oggi. Mi piace mettere insieme tante cose diverse perché il dialogo è arricchente.

La tua musica è diversamente sensibile, un po’ donna, anche quando aggressiva: come lavori?
La definizione si sposa perfettamente ad un lavoro così lungo cominciato nel 2011. Dove ho tentato di bilanciare scrittura e oralità, testo e improvvisazione. Insomma, sinergia ed equilibrio. L’organizzazione dei pezzi è stata centrale: mi ricordo i foglietti con i titoli. Li ordinavo e li rigiravo. Avrei voluto realizzare una sorta di cerchio della vita, ma all’ascolto non funzionava. Così ho rimescolato l’ordine dei brani secondo una narrazione puramente musicale ma combinatoria.

Il tuo jazz come punto di esplorazione della musica contemporanea?
È così, perché non mi sono mossa in senso verticale ma ho sviluppato la musica in senso contrappuntistico. Una musica contemporanea classica che tratta con grande attenzione l’impasto generale del suono e il percorso del disegno melodico. Diversi brani sono nati con in testa un’idea di melodia-accordo: un oscillare tra jazz e non jazz.

Sei imprevedibile tanto quanto Italo Calvino: cosa ti ha contagiato?
Con Calvino vivo una corrispondenza altissima, forte: la sua qualità espressiva mi rapisce. Tutto parte da Le Città Invisibili, ma in me sono rimaste anche le impressioni di Se una notte d’inverno un viaggiatore e Lezioni americane. In tutto questo, così come nel disco, il dialogo – a due ma anche all’interno del settetto – è fondamentale. Un filo rosso che unisce, così come accade nei libri di Calvino, dove ogni capitolo è l’inizio di un nuovo romanzo ma in stile diverso. In tutto questo delirio, avverto un desiderio di cristallizzare l’inconscio in modo trasparente e geometrico. Vorrei tenere in piedi tutto proprio come fa lui, con leggerezza: ma forse il disco somiglia più ad un trattato di composizione.

Il disco cerca un baricentro tra Oriente e Occidente: quale significato dai alla contaminazione?
È lo specchio del mondo in cui viviviamo: in una società fatta di meticciato la compresenza delle diversità deve essere naturale. La contaminazione assume un significato vitale.

In “Invisible Cities” scorre una tensione febbrile: materico, aereo, arcaico, moderno. Anche impulsivo nell’usare tanti alfabeti musicali?
Ho cercato un mio stile ma mi penso in divenire. Impulsivo lo è, soprattutto nei duetti, dove mi aggancio ai colloqui tra Marco Polo e il
Gran Khan: il gesto è al centro del loro dialogare. E la musica, lingua universale, è gestualità sonora.

Filo conduttore del disco e la liquidità, cioè l’assenza di cortine espressive e strumentali…
Musica liquida in continua trasformazione. Se vuoi, un omaggio a Zygmunt Bauman.

Review by Claudio Sessa for Il Corriere della Sera– February 19th, 2016

Un violino per le città di Calvino
Una violinista jazz (ma anche molto altro) interpreta in musica, con ottimi compagni di viaggio, Le città invisibili di Italo Calvino. Invisible Cities, album di Elisa Manera per Aut Records, è curioso e intelligente. Si ispira al taglio molto eterogeneo del libro e alterna duetti (i dialoghi fra Marco Polo e Kublai Kahn) a brani per settetto. Calvino del suo lavoro diceva che «si discute e si interroga mentre si fa»: il disco gli somiglia.

Review by Piercarlo Poggio for Audioreview– February 2017

Violinista e compositrice, Eloisa Manera riunisce attorno a sé alcuni dei migliori improvvisatori italiani odierni per dare forma e sostanza alla sua fervida fantasia. Non preoccupatevi se il minutaggio dei brani che leggete in copertina non corrisponde quasi mai
a quanto riferisce il lettore in cui avete infilato “Invisible Cities”, e soprattutto non abbattetevi se sino a oltre la metà del secondo titolo il coacervo di suoni potrebbe farvi pensare di aver sbagliato disco. Da lì in poi molto si chiarisce e il quadro generale diventa comprensibile, specie se si considera che la Manera ha tratto ispirazione dal celebre testo di Calvino (“Le città invisibili”, naturalmente) traducendo le parole della narrazione in immagini sonore di notevole potenza espressiva. È una trama densa, tirata al punto giusto, felicemente diversificata a seconda delle tracce, suddivise in duetti non ortodossi del tutto improvvisati e brani per settetto. I collaboratori sono stati scelti con acume e se ne può verificare l’aderenza all’architettura dell’opera in ogni istante. I sax di Piero Bittolo Bon, il trombone di Andrea Baronchelli e i vibrafoni di Pasquale Mirra offrono alla Manera la possibilità di condurre dialoghi serrati, di trovare di continuo uno specchio riflettente per i bagliori lanciati dal suo violino. Altrettanto efficaci sono la coppia ritmica Danilo Gallo e Ferdinando Faraò e gli inserti paraetnici di Roberto Zanisi. Stile violinistico zigzagante, suono asciutto e insieme comunicativo, la Manera mostra di conoscere il filone statunitense creativo dei bei tempi (Leroy Jenkins, Billy Bang) ma vi aggiunge spunti originali assimilabili a quanto sperimentano artisti trasversali della sua generazione come Zach Broch. Saper unire la tecnica all’inventiva non è da tutti e la Manera dimostra in “Invisible Cities” di essere in un momento di grazia.

Review by Alessandro Rigolli for Gazzetta di Parma– February 7th, 2017

Violinista e compositrice italo-spagnola con una robusta formazione classica, Eloisa Manera si sta ritagliando un proprio spazio nel panorama più dinamico della scena jazz.
Con «Invisible Cities» questa artista ha messo su disco un progetto nel quale commistioni artistico-culturali e rimandi espressivi diversificati rappresentano la materia prima per un percorso di dodici brani ispirati alle «Città invisibili» di Italo Calvino, opera che la stessa Manera descrive così: «È un libro che porge domande, più che dare delle risposte e per questo mi ha sempre molto affascinato. La mia è una rilettura attraverso le categorie che danno i titoli ai brani». Il lavoro si articola in momenti di «duo» e altri in una dimensione strumentale più allargata, e coinvolge un gruppo di solidi musicisti che hanno saputo fare propri i caratteri interpretativi suggeriti dalle composizioni della violinista, complice anche un’ampia tessitura improvvisativa che ha permesso di miscelare gli interventi di Gianluca Barbaro (flauti dolci, ewi), Piero Bittolo Bon (sax alto, baritono, clarinetto), Andrea Baronchelli (trombone), Pasquale Mirra (vibrafono), Danilo Gallo (basso, contrabbasso), Ferdinando Faraò (batteria) e Roberto Zanisi (string guitars, cumbus, bouzouki, steel pan e altro). Il carattere che rimane impresso a partire dal breve brano iniziale è la sorpresa con la quale passiamo, composizione dopo composizione, attraverso un caleidoscopio di rimandi i più differenti, capaci di regalare suggestioni tra Oriente e Occidente anche grazie a una preziosa combinazione stilistica nutrita da un materiale timbrico originale e cangiante, il tutto miscelato con fresca creatività da Eloisa Manera e dai musicisti che la accompagnano.

Review by Luca Pavanel for Il Giornale– October 28th, 2016

Una rondine non fa primavera. Ma in questo caso sì e ora, anche se la stagione dei fiori è lontana. Primavera nel senso di idee nuove e fresche, proposte dalla violinista compositrice Eloisa Manera, anni 35, milanese, che pubblica la sua seconda incisione: «Invisible cities», un chiaro rimando al romanzo di Italo Calvino. Già, musica e letteratura, un’attrazione fatale. Quello che Eloisa (ensemble) presenta il 28 ottobre al Festival jazz di Mantova è ispirato, appunto, ai contenuti dell’opera dello scrittore. Dodici pezzi, tra partiture e improvvisazioni a seguire, dove prevale lo schema combinatorio che si ritrova nella stessa opera letteraria: nel disco botta e risposta tra violinista e polistrumentista, nel tomo tra Marco polo e l’imperatore Kablai Khan. Ogni brano è una città. Ne «La città e la memoria», per esempio, si gioca con generi e atmosfere: da un’evocazione gregoriana filtrata dall’elettronica si approda a un blues, dopo una lenta e progressiva metamorfosi. Un omaggio che lei, tra generi contemporanei e a un certo jazz newyorkese, fa alla figura dell’intellettuale di Santiago de Las Vegas de La Habana. E vien da dirlo: finalmente qualcuno non colpito da esterofilia cronica. Musicista che guarda anche alle altre forme d’arte, cultrice di Goya, Eloisa in poche stagioni si è fatta notare sulla scena concertistica e per la sua produzione, vedi «Rondine». Che la rispecchia: nonostante l’aria da anti-diva e con il suo fascino color pastello da incantevole e talentuosa ragazza della porta accanto, è riuscita, in un mondo prevalentemente maschile, a ritagliarsi i suoi spazi. Basta vedere il numero e la qualità delle sue collaborazioni. La rivista «Musica Jazz» ha messo il suo nome in copertina e la star Robert Wyatt si è complimentato con lei per una cover che ha realizzato nel duo Hobo.

Review by Renato Magni for Eco di Bergamo– February 10th, 2017

Violinista italo spagnola, di formazione accademica, propensa alle esperienze trasversali, molto attiva alle nostre latitudini (collaborazioni con Tino Tracanna, Massimiliano Milesi, Walter Bonnot Buonanno, Andrea Baronchelli, questi ultimi due presenti anche nel disco) è al secondo album, coraggiosa rilettura di Calvino. Sei duetti liberi e informali, rivisitazione sonora dei dialoghi tra Marco Polo e il Gran Kahn, e sei composizioni corali e pluralistiche, felice ventata di creatività e immaginazione sonora, coniugando groove del jazz contemporaneo con gli orizzonti compositivi dell’avanguardia.

Review by F. Fr. for Cittadino di Lodi

Un album di per sé già affascinante sole per aver riprogettato musicalmente alcune delle idee contenute delle Città Invisibili di Calvino. L’idea non è nuovissima: il romanzo dello scrittore delle Lezioni Americane ha ispirato altri progetti come Madeleine Dreams di Taylor Ho Bynum & Spider Monkey Strings, ma l’ensemble della violinista Eloisa Manera sembra far meglio, cogliendo nella sua carica improvvisativa elementi della tradizione sonora occidentale con quella orientale.

Two songs featured on Battiti November 8th, 2016

Live appearance on Piazza Verdi (Rai Radio 3) January 7th, 2017

Podcast by Ricciarda Belgioioso for Note d’autore December 10th, 2016

Podcast-review by Valerio Corzani for RSI – Rete Due January 4th, 2017

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