Press Brotherhood Oak

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Baze Djunkii on Nite Stylez

Brotherhood – Oak [Aut Records 045]
Put on the circuit via Berlin’s Aut Records-imprint on April 8th, 2k19 as one of four albums released on the label on this day is “Oak” by Brotherhood, a duo comprised of Tobia Bondesan and Michele Bondesan working their way through sax and double bass territories over the course of eight tracks and a full hour playtime. Opening with the tender, high quality FutureJazz outing “If In Doubt Ask” the duo paves the way for great things to come, like the brooding late night darkness and melancholia of “Ebony” which is paired with a busy FreeJazz attitude at times whereas the follow up named “Little Peace Song” proves that there’s room for a little tongue-in-cheek humour in ultraminimalist Jazz compositions. Furthermore “Damballah Weddo” focuses on experiments in high-pitched sax notes, “Tiamat” brings forth more of a dark’ish, unsettling and danger-heralding atmosphere before evolving into a meditation on plucked bass strings and the “Extemporary Song” dives deep into quality BarJazz territories for those digging an easier, tender and slightly romantic vibe musically. Finally “Mumble Rumble” sees Brotherhood on a highly experimental, partially somewhat even Field Recording-resembling tip that turns into full on furious Improv madness whilst the concluding cut named “If In Doubt Search” provides a lesson in fragile, hyperminimal recording techniques and tenderness in experimental music for a closing.

Alberto Bazzurro on L’isola che non c’era

[…] Climi un po’ più turbolenti ci giungono dal duo protagonista di Oak (Aut), denominato Brotherhood e composto in effetti da due fratelli, Tobia e Michele Bondesan, toscani, sax tenore e soprano l’uno, ancora contrabbasso l’altro. L’incedere è spesso quieto, riflessivo (frequenti i momenti solitari di ciascuno dei due), ma attraversato da fremiti nervosi che ne increspano lo svolgersi.

Ettore Garzia on Percorsi Musicali

“…L’arte moderna dunque vale soprattutto per quello che sa svegliare nell’anima, non tanto per ciò che compiuto, di finito, presenta e contiene effettivamente in sé stessa. E’ come un’impronta, uno stampo che invita l’anima nostra a versarvi la propria attività, e a questa attività essa viene incitata e ridesta appunto dallo stampo. Perciò non si richiede dall’arte d’oggi la perfezione e la rifinitezza dell’antica, che non sarebbe ancora possibile; ma si richiede che l’arte moderna susciti, svegli, metta in attività ciò che dorme nell’intimo di chi viene a contatto con essa..”
Arturo Onofri – Nuovo Rinascimento come arte dell’Io, Laterza 1925, pag. 32

La consistente lettura del poeta e scrittore italiano è un sentire che non si è affatto perso nel tempo: senza denigrare assolutamente l’azione della tecnica, ciò che oggi dovrebbe affermarsi nell’arte e dunque anche nella musica, è un restaurato simbolismo che trovi forme metafisiche di sostentamento; tutte la capacità innate dell’artista vanno soppesate in proporzione ai nuovi stimoli che la sua arte sa produrre negli individui. Nell’ambito delle attività di alcuni promettenti improvvisatori italiani noto un forte richiamo all’antichità e al rito, dovuto in parte alla consonanza antropologica, in parte alle opportunità che si presentano, ancorate all’adeguamento sonoro che può essere conseguito con i mezzi strumentali moderni. Il richiamo fornito dai fratelli Tobia e Michele Bondesan (rispettivamente sax tenore/soprano e contrabbasso) è inserito in un patchwork improvvisativo di esemplare spessore, immediatamente verificabile come formula Brotherood, in un cd da poco pubblicato da Aut Records che si intitola Oak; di Tobia (classe 1990) s’impongono le competenze e le abilità tecniche sul sax, risorse rimarcate anche da un fatto storico, ossia essere stato il prima jazzista italiano laureato nei corsi della Siena Jazz University del 2015; inoltre Tobia ha impostato anche una certa visuale nella progettualità, tra cui la conduzione della BlueRing Orchestra e la sub-conduzione della Fonterossa Open Orchestra possono considerarsi già realtà addomesticate con proprie idee. Michele (1994) ha una maturità strumentale invidiabile al contrabbasso, nonostante l’età giovane, ed è un musicista già in grado di fornire supporti e soluzioni per l’improvvisazione tramite gli eventi workshops e le esibizioni. I due fratelli sembrano poi legati da un incredibile senso di appartenenza, che può essere captato in scena.
Ritornado ad Oak, l’intreccio tra simbolismo, ancestralità e astrattismo dei nostri giorni è delineato in maniera tale da renderci edotti che la musica ha ancora molta strada da percorrere. Strutturato in 8 improvvisazioni, Oak suscita un paio di considerazioni istantanee già subito dopo il primo ascolto: la prima è la gran serietà che si percepisce nella musica e che in molti frangenti fa pensare mutatis mutandis ad uno sviluppo da étude classico; l’altra riguarda il sistema dei significati, poiché si tira in ballo un sistema simbolico di figure in cui si possono trovare querce, impronte legnose ed immutabili, concetti di resistenza al tempo e naturalmente loa e spiriti benigni. Quanto poi alla bravura, qui c’è una boccata d’aria fresca, un’operazione concepita con uno scopo ben preciso: non solo dei temi azzeccati e la costruzione di uno sviluppo organico, ma ricerca di dinamiche timbriche particolari, assicurate da una sorta di accondiscendenza simulatoria dei due strumenti; i due Bondesan si spingono gradualmente ed accuratamente nei meandri dei loro oggetti sonori, cercando non appena possibile una coordinazione continua, anche sulle estensioni, le quali possono dar vita a rotte ritmiche non prevedibili.
Si può trattare di allungamenti, parti rough o sclerotiche, di conduzioni unisone, ma alla fine la sensazione è quella di ricavare un soundscapes oltre l’insinuazione del rito: per tutte vale la splendida evoluzione di Little peace song, dove si parte da un tenore irriverente e magnificamente sfilacciato, si continua il percorso in duo tra un bel tema e condivisioni armoniche che producono stati di piacevole astrazione e si termina con un contrasto che porta con sè una dissoluzione completa delle regole convenzionali del sax di fronte ad un basilare accento ritmico di basso; Tobia e Michele hanno anche momenti solitari in Oak, ma in linea generale il tono sperimentale non si perde mai: l’iniziale If I in doubt ask o le segmentazioni di Damballah Weddo hanno una loro autonomia, mostrano collegamenti illustri (Coltrane, Coleman, i sassofonisti tenori del free jazz statunitense, William Parker e alcuni metodi dei contrabbassisti dell’improvvisazione), ma non ti permettono di fissare lo stile di qualcuno in particolare: è una metafisica avvertita sullo scambio primitivo, concepita da due giovani artisti ispirati, a cui auguro sinceramente di continuare su questa linea.

Con Tobia e Michele ho avuto la possibilità di ottenere un feedback dopo aver ascoltato il cd: sono parole integrative su Oak e su alcune impostazioni della loro musica. C’è molto spessore nelle risposte, il che conferma che si tratta di discutere con musicisti molto preparati; vi riporto di seguito il contenuto del nostro scambio.

EG: Nella giovane Italia improvvisativa i migliori talenti (vedi Colonna, Bertoni, Leonardi, etc.) sono costantemente alla ricerca di un simbolismo e di creazioni che guardano all’antichità. Sono fonti d’ispirazione che intravedo anche in Oak: la quercia come simbolo di resistenza temporale, le vicende di Damballah Weddo e di Tiamat. In che modo vi accostate all’antichità o in generale all’arte pre-classica? Ci sono delle conoscenze specifiche che avete maturato nella lettura? Dal punto di vista musicale, c’è qualche cognizione su quanto scoperto antropologicamente da Tim Hodgkinson?

Tobia: Più che di antichità parlerei di rituale, non tanto in senso culturale o religioso, ma forse catartico o semplicemente umano: riunirsi intorno a un concetto ancestrale di suono, scandagliare il fondo della nostra esistenza grazie a un atto, un gesto, tipico della nostra specie, senza che esso risulti ghettizzato nella definizione di “etnico”. Ovvio che questo affonda le sue radici nell’origine della musica, ai tempi in cui un giovane homo sapiens scopriva il controllo dei suoni naturali e della loro potenza evocativa, sociale, religiosa, aggregativa. E in questo il crearsi di un rapporto del suono col singolo come strumentista o ascoltatore -il suo studio quotidiano, la sua percezione, la sua estetica, lo scavare a fondo la sua natura e il suo significato- e li rapporto con l’esterno, con il mondo, con il gruppo, la sua funzione tribale, sociale, dedita allo scuotimento delle coscienze, dei subconsci, delle emozioni collettive. D’altronde riferimenti ad un passato altro o ad un futuro remoto sono ricorrenti in molti artisti (gli Art Ensemble of Chicago, Sun Ra…), come se cercassero un altrove ancestrale, dove l’espressione del singolo e della comunità attraverso la musica fossero liberi e vergini. In questo non leggo un riferimento nostalgico a “tempi che furono” ne a un primitivismo da “buon selvaggio” ma, anzi, un cortocircuito temporale che possa influire potentemente sulla contemporaneità, spezzandone la linearità. Prendiamo la quercia, totem di questo nostro primo lavoro discografico: fa parte della nostra formazione di ragazzi e uomini cresciuti in una campagna incontaminata, a contatto con la natura, e fa quindi parte del nostro essere fratelli, del nostro passato condiviso, fa di noi una comunità. Ma la quercia, come il suono, è qualcosa che c’era prima e ci sarà dopo di noi, rappresenta il passato e il futuro, il contatto con una parte intima e animale dell’essere uomini e musicisti, che può essere capito veramente da tutti, anche oggi nel primo ventennio del 2000. Logico che in questo processo i simboli, le analogie culturali, la conoscenza del lavoro di chi ha scosso il flusso temporale con un ritorno a un passato o a un futuro remoto sono fondamentali, sia a livello musicale, che letterario, che riguardante le arti visive e performative.

Michele: Probabilmente alla radice della ricerca che ho intrapreso nell’ambito dell’improvvisazione e della composizione estemporanea si trova l’esigenza di volgersi alla profondità, intesa come un modo di vivere sé stessi in relazione al mondo, alla storia e agli altri che spezzi i vincoli sociali, estetici ed emotivi relativi alla sola contingenza; è insomma un tentativo di essere più liberamente sé stessi attraverso un’arte rituale ma quotidiana. In questo senso, nel corso di questa ricerca, è sorta spontanea l’esigenza di una simbologia che fosse al tempo stesso attuale ed un “altrove”, di un arcaismo futuribile, di una costellazione di riferimenti (letterari, pittorici, musicali) eterogenei, ma animati dallo stesso slancio vitale ed assoluto, nell’assoluto rifiuto della concezione classico-illuminista prima e romantico-positivista poi di una storia (e di un’arte) dal progresso lineare e causale. Riferimenti imprescindibili sono parimenti dunque Gesualdo da Venosa e Picasso, le pitture rupestri e Basho, l’Art Ensemble of Chicago e i lirici greci.
L’antichità diventa quindi il luogo emotivo in cui ritrovarsi, interagire, conoscere e ripartire verso esiti inediti, nel continuo tentativo di accogliere e spogliarsi dei condizionamenti; l’antichità è l’infanzia dell’uomo, il tempo della autenticità e della possibilità.

EG: Ho visto/ascoltato dei vostri video su youtube (qui il link di uno di essi), in cui un elemento di interesse è anche la posizione fisica: siete molto vicini, come in una session casalinga in cui avete bisogno di ascoltarvi costantemente. L’aspetto tattile delle vostre improvvisazioni mi sembra essenziale. Quanto è importante sentirvi?

Tobia: tendiamo a vivere la musica come un atto mentale, tant’è che spesso chiudiamo gli occhi per ascoltarla, come se essa potesse penetrare meglio priva del peso della carne. Ma il suono è un fatto fisico: le onde ci attraversano, scuotono le membrane, le ossa e le viscere. Non parliamo di intelletto ma del panico e dell’eccitazione che ci posseggono alla vista di un evento naturale pazzesco. Questa emozione, questa comunione con l’altro, si ottiene stando vicini, cercando di avvicinarsi il più possibile alla sorgente del fenomeno sonoro. Purtroppo quello della comunicazione mediata è un fenomeno che ci riguarda ogni giorno: dal telefono ai social media siamo abituati a interagire indirettamente e perciò in modo anche innaturale (basti vedere la violenza verbale che si scatena in molti “leoni da tastiera”). Ma qui stiamo giocando con gli elementi, con il corpo, vogliamo guardarci negli occhi quando suoniamo e vogliamo poter entrare in relazione con il pubblico. Nei nostri live consideriamo l’esecuzione una performance completa, nella quale i nostri corpi danzano e si proiettano in e da uno spazio preciso: non mancano eventi spettacolari ed imprevisti, come la distribuzione di strumenti al pubblico e il dislocamento nello spazio durante l’esecuzione.

Michele: L’improvvisazione, la musica, è gesto: è il corpo. A differenza di quanto si apprende (come studenti di musica e come fruitore della maggior parte concerti) la pratica musicale non è un puro artificio bidimensionale. Probabilmente dipende dallo strumento che suono, dalla mia formazione di musicista classico e dalla conseguente abitudine a vivere in modo prediletto la dimensione acustica, ad ogni modo non credo possa esistere musica senza contatto con sé stessi, senza coinvolgimento e interazione corporea, senza danza.

EG: Nel corso del cd le estensioni sugli strumenti arrivano gradualmente e sviluppano anche un senso ritmico oltre che timbrico, a mò di studio classico. E’ un aspetto che ho apprezzato molto, un carattere distintivo. Tenendo presente anche l’esperienza fatta da Tobia come conduttore di BlueRing Orchestra o assistente co-direttore della Fonterossa Open Orchestra, si può notare che c’è una vicinanza artistica alla produzione di ritmi danzabili moderni nell’ambito della libera interpretazione (hip hop, rap, etc.). Come pensi sia possibile distillare nella libera improvvisazione, tale enfasi ritmica? Potrebbero esserci modi di legare sul palco compositori e musicisti così come fatto per esempio da Kessler e Saul Williams in Germania o De Ritis e DJ Spooky negli Stati Uniti?

Tobia: Il ritmo fa parte dei parametri del suono, lo colloca nel tempo. Non credo che vi sia niente di più naturale del ripetersi degli eventi: il giorno e la notte, le stagioni, il battito cardiaco. Quello che succede in molta musica occidentale è la quantizzazione meccanica di tale ritmo, la riduzione a modello matematico. Penso che il ritmo (anche codificato in metro, addirittura idiomatico) possa più fare riferimento al respiro o ad un’onda che ci percuote, una danza. Quando suono e quando dirigo ( la BlueRing Orchestra e talvolta la Fonterossa Open Orchestra) dentro di me – e talvolta anche fuori!- danzo, salutando il ripetersi regolare o meno del ritmo come un inno alla vita. L’improvvisazione è anche tutto questo, non mi pongo limiti ideologici. Esistono diversi modi di approcciarsi alla modernità del linguaggio improvvisativo: alcuni in cui si riparte dai mattoni fondamentali della musica (i parametri), cercando di allontanarsi il più possibile dall’idioma e altri più post-moderni, in cui si giustappongono riferimenti culturali e linguaggi anche molto lontani. Personalmente credo che un improvvisatore debba fare bagaglio di entrambi.
Per quanto riguarda composizione e improvvisazione sono due facce della stessa medaglia, il motivo e la spinta per l’una e per l’altra sono per me identici, scaturiscono dalla stessa fonte e con lo stesso obiettivo. Un improvvisatore è un compositore estemporaneo, un compositore è un improvvisatore che scrive ciò che la sua urgenza interiore gli suggerisce. Perciò non vedo incongruenze sul perchè collaborino.

Michele: Mi ricollego alla risposta alla domanda precedente; l’identità tra pulsazione (o suddivisione metrica) ed impulso ritmico è una enorme limitazione della musica occidentale in generale, e della musica commerciale in particolare. Se si considera quanto l’andamento propulsivo di certe musiche derivi da una loro certa “incommensurabilità” (penso allo swing per esempio), per estensione mi appare evidente che la libera improvvisazione è perfettamente compatibile all’enfasi ritmica, in tutte le sue forme.

EG: Ci sono delle fonti musicali formative a cui voi date importanza?

Tobia: Strumentalmente mi sono formato all’interno del linguaggio jazzistico, ci sono perciò degli artisti che hanno fatto parte della mia prima formazione che non mi lasceranno mai, sia nel linguaggio più tradizionale, che nel free jazz, che nell’avanguardia contemporanea sia americana che europea. Però devo dire che mi piace scoprire e capire il linguaggio man mano che si crea: considero la mia formazione un’evoluzione costante, che può dare sostanza e vita alla musica proprio per la scoperta quotidiana di nuovi anfratti del suono, provengano essi da nomi illustri o da giovani colleghi. Curiosità, ecco. Ho intrapreso nuove ricerche ascoltando Ornette Coleman, Dolphy, Mingus, Coltrane, Albert Ayler, Roscoe Mitchell, Braxton, William Parker e Hamid Drake, Butch Morris, Henry Threadgill, Tim Berne etc, ma anche avendo la fortuna di suonare con tanti musicisti, pezzi di storia della musica improvvisata e giovani talentuosi e cuoriosi, ascoltando i dischi di amici, conoscendo in modo fraterno i membri dei miei gruppi stabili.

Michele: intendendo “fonti musicali formative” come riferimenti musicali importanti per la nostra formazione, penso di poter parlare a nome di entrambi citando Mingus, l’Art Ensemble, Braxton e l’AACM in generale, Ornette Coleman, Albert Ayler e tutti gli “eroi” del free jazz e della musica improvvisata, William Parker, Butch Morris. Rimanendo più vicini a noi è impossibile non citare come amica, insegnante e riferimento Silvia Bolognesi.

EG: Il vostro concetto sulle prospettive della musica. Io sono tra quelli che pensano che la pericolosa defaillance culturale che si proclama in ogni parte del mondo non farà scomparire la buona musica (come quella vostra), ma magari la potrebbe solo ghettizzare. Hai una ricetta, un pensiero molto profondo, su quanto l’improvvisazione libera potrà ancora percorrere e come lo percorrerà?

Tobia: E’ indubbio che nella società odierna non solo alla musica, non solo all’arte, ma alla bellezza e all’equilibrio naturale sia dato un senso non monetizzabile e quindi di secondaria importanza. Un musicista di oggi che promuove la sua musica in modo genuino e sincero è un partigiano, un ribelle, un outsider, non per scelta, ma per come (ahimè) è fatto il mondo. Tuttavia, presa coscienza di questa posizione, non è la sfiducia il primo sentimento che mi attanaglia. La bellezza e la cultura continuano a scorrere come un fiume sotterraneo sotto la violenza, la paura del diverso, l’omologazione, quasi fossero un bisogno umano. Credo personalmente di fare il possibile per alimentare questo fiume, come del resto molti colleghi: tutto l’immenso lavoro che facciamo con BlueRing-Improvisers, il collettivo che abbiamo fondato ormai 7 anni fa e che riunisce musicisti di ricerca da tutto il centro nord, il lavoro di Silvia Bolognesi con Fonterossa e l’operato incomiabile di altri collettivi italiani che contro ogni aspettativa sono in gran numero e ricchi di iniziativa. Non credo sia un ghetto, ma forse un mondo a parte, parallelo, che apre volentieri le sue porte a chi lo vuol scoprire.
L’improvvisazione porta dentro di sé l’espressione del singolo e al contempo della comunità che lo circonda e di cui si nutre. Non ci sarà mai un’espressione musicale più potente ed originale, proprio per questa portata peculiare della musica improvvisata: esprime (nel bene e anche nel male) la singolarità . Quando un musicista mi dice che è alla ricerca del nuovo, di qualcosa mai fatto prima, io rispondo che ognuno di noi è irripetibile e in continua evoluzione, perciò nuovo per l’altro. Forse sopravviveremo proprio grazie alla resistenza di queste singolarità, grazie al dono al mondo della visione con i nostri occhi.

Michele: Rispondendo a questa domanda il giorno dei risultati delle elezioni europee, faccio molta fatica ad essere ottimista sul ruolo della cultura e dell’arte nel mondo che si profila.
Detto ciò, sicuramente la musica e l’improvvisazione (non sono forse sinonimi in fondo, in senso lato?) sono necessarie all’uomo, gli sono connaturate come il linguaggio, l’istinto sociale, probabilmente fino ad un livello di “necessità evolutiva”.
Questo per dire che non cesseranno mai di esistere, a prescindere dal ruolo economico che, per ragioni politiche e sociali, si sceglierà di assegnare loro. Io credo nella capacità dell’improvvisazione di liberare chiunque vi entri in contatto, di portarlo in profondità, di fargli toccare con mano la quercia della sua infanzia.

Mario Biserni on Sands Zine

Il primo pensiero che ho avuto prendendo in mano questo disco è andato alla grandissima Brotherhood Of Breath di Chris McGregor. Forse è stata una semplice suggestione dettata dal nome, dalle sculture in legno e dalla grande quercia che gli fa da sfondo nell’immagine di copertina. Può essere che il riferimento ci sia, come può essere che gli accostamenti siano assolutamente casuali, determinati dal fatto che il duo è composto da fratelli e da immagini relative al titolo di un disco che, quel titolo, può far riferimento a migliaia di cose. D’altronde i raffronti sono difficili a partire dal mezzo secolo che separa l’orchestra anglo-sudafricana dal duo senese e considerando proprio le enormi differenze che separano un’orchestra da un duo. I punti di contatto sembrano limitarsi al generico fattaccio che in entrambi i casi si tratta di free jazz (prendete il termine nella più ampia accezione possibile) e in alcune derive decisamente afro captabili fra i solchi di “OAK”. A questo punto potrei seguire il suggerimento dato dai due (If In Doubt Ask o If In Doubt Search), ma preferisco non indagare oltre e scambiare le mie suggestioni con la realtà, anche perché la loro musica è riuscita a confondermi come a suo tempo mi confuse quella della Brotherhood Of Breath.
“OAK” non può essere certo considerato un lavoro innovativo, ma suona comunque fresco e nuovo, e ben si inserisce in quel movimento di rinnovamento del jazz, che ha nella Aut Records uno dei suoi punti di riferimento, con basi ben piantate nella tradizione della musica afroamericana ma permeabile agli stimoli e ai suggerimenti provenienti dalla contemporaneità e dalla quotidianità.
Acquisto consigliato.

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